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Raccontare il mondo veicolando azioni concrete e buone pratiche di cambiamento: è questo il compito di quella che amo definire fotografia sociale. È questa la visione che sta alla base di Beyond Borders, il progetto fotografico con cui Giulio Di Meo ha raccontato l’esperienza di Patologi Oltre Frontiera nel Corno d’Africa, tra Gibuti e Somaliland. «Sono stato invitato da Vincenzo Stracca, fondatore e Presidente Onorario di Patologi Oltre Frontiera, a documentare i progetti dell’ONG. Ma oltre all’interesse per la regione — fragile, complessa, eppure centrale negli equilibri geopolitici — è stata l’energia contagiosa di Vincenzo a spingermi a partire», racconta Giulio. «Mi ha colpito la lucidità con cui parlava dell’urgenza di creare laboratori di patologia, dell’importanza della diagnosi tempestiva, del potenziale trasformativo della telepatologia. Uno strumento semplice, eppure capace di cambiare la vita, soprattutto dove l’accesso alle cure è un privilegio per pochi. Una diagnosi, anche a distanza, può cambiare il destino di una persona. Senza diagnosi non c’è prevenzione, e senza prevenzione non può esserci cura. Da questa consapevolezza è nato il mio desiderio di raccontare il loro lavoro. Perché la fotografia, oltre a documentare, può amplificare. Può accendere attenzione su pratiche virtuose spesso invisibili, può essere un ponte tra mondi lontani.» In Beyond Borders, Giulio ha scelto di costruire una narrazione visiva che andasse oltre la semplice documentazione. «Non mi sono limitato a fotografare ospedali e laboratori», spiega. «Volevo raccontare anche il tessuto sociale, la quotidianità fatta di sfide e speranze, la forza delle relazioni, la resilienza degli operatori sanitari, la dignità delle persone incontrate. Senza mai dimenticare le difficoltà materiali, la povertà strutturale, le crisi sanitarie e ambientali. A Gibuti, nella baraccopoli di Balbala, ho incontrato famiglie che vivono in case di lamiera, sotto un sole cocente, senza acqua corrente né elettricità. Eppure, anche lì, ho trovato comunità e dignità. In Somaliland, ho voluto raccontare la condizione dei profughi interni, persone in fuga da guerre e crisi climatiche, costrette a vivere in campi dove spesso manca tutto: cibo, acqua, cure. Le donne sono le più esposte a violenze e abusi. Cercare di restituire umanità e complessità, senza cadere nella retorica del dolore, è stato il mio modo per onorare le persone incontrate. E per offrire a chi guarda queste immagini una visione più profonda, più vera.» L’esperienza ha lasciato un segno profondo nel fotografo. «Ho toccato con mano le disuguaglianze che attraversano il mondo. Ma anche — ancora una volta — un’umanità straordinaria. Persone che si prendono cura le une delle altre, che lottano per migliorare le condizioni della propria comunità.» «Penso a Carlo e Miriam, due medici italiani che da quasi quarant’anni vivono in Africa. La loro storia è una delle tante che restituisce senso e speranza. Una storia che rende visibile ciò che spesso resta invisibile: l’impegno quotidiano, silenzioso, ma fondamentale. Come loro, non possiamo permetterci di voltare lo sguardo. Serve una coscienza collettiva. E la fotografia può essere ancora oggi uno strumento potente, capace di generare empatia, di avvicinare mondi lontani, di spingere all’azione.» Tra i molti scatti realizzati, uno in particolare rappresenta l’intero progetto. «È l’immagine di Ayanleh – il cui nome in somalo significa Fortunato - e Haaji. Lui è stato abbandonato alla nascita in un ospedale di Gibuti. Lei, un’anziana donna, lo ha salvato. Grazie anche a un programma per bambini malnutriti guidato dalla dottoressa Miriam Martinelli, oggi Ayanleh sta bene. Vive con Haaji, la donna che gli ha salvato la vita. E ora che lei ha quasi cent’anni, è lui a prendersi cura di lei. Quella foto mi emoziona profondamente. È molto più di un ritratto: è la sintesi visiva di tutto ciò che ho cercato di raccontare. La dignità nella fragilità, la forza delle relazioni umane, l’importanza del prendersi cura dell’altro.» Chi è Giulio Di Meo (www.giuliodimeo.it) Fotografo impegnato nel reportage e nella didattica, da oltre vent’anni promuove la fotografia come strumento di espressione e integrazione sociale. Ha condotto più di 200 workshop di fotografia sociale in Italia e all’estero, coinvolgendo bambini, adolescenti, migranti e persone con disabilità. È vicedirettore e photo editor della rivista Witness Journal. Tra i suoi libri fotografici: Pig Iron (2013), Sem Terra (2014), Il Deserto Intorno (2015), Anticorpi bolognesi (2020). Beyond Borders è disponibile per i sostenitori di Patologi Oltre Frontiera. Per maggiori info, scrivici a [email protected]
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July 2025
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